Burnout: quando l’assenza di equità colpisce sul lavoro
di Redazione CIG Arcigay Milano
A cura del Gruppo Donna – CIG Arcigay Milano
di Sofia
È un fatto noto che la parità tra donne e uomini nel mondo del lavoro sia un obiettivo ancora distante dalla realtà che viviamo tutti i giorni. Forse meno evidente, e di conseguenza, se ne parla di rado è che le disparità nel mondo del lavoro (e non solo) generino disparità sul lavoro, incidendo in maniera significativa e costante sull’esperienza di persone già discriminate. La posizione delle donne nell’ambiente lavorativo viene infatti influenzata dal contesto in cui si trovano: la capacità della struttura sociale e aziendale di permettere la partecipazione e il coinvolgimento ha un effetto determinante sulla condizione di stress vissuto da chi, quegli spazi lavorativi, li occupa.
Ascoltando un podcast [1], alcune settimane fa, ho sentito una frase, attribuita alla pittrice e scrittrice Leonora Carrington: “Avremmo bisogno di una moglie, come gli uomini, così potremmo lavorare tutto il tempo e qualcun altro si occuperebbe della casa”. C’è un senso di inadeguatezza che quest’idea mi trasmette: come se, per esistere nel mondo del lavoro, le donne dovessero riprodurre la situazione di oppressione del genere femminile portata avanti per secoli all’interno del paradigma relazionale eterosessuale ai danni di un’altra donna, alla quale delegare tutto il lavoro non retribuito. Al di là dell’evidente dissonanza di questa prospettiva, non è (solo) nella diversa incidenza del carico di lavoro domestico che va individuata la causa della maggiore incidenza dello stress da lavoro e del burnout nelle donne.
Prima di tutto, è necessario definire le parole che usiamo per descrivere questo fenomeno. Lo stress è una risposta adattativa a situazioni in cui non ci si sente in grado di corrispondere alle richieste o alle aspettative, in cui gli stimoli emotivi, sociali e cognitivi determinano una risposta psicofisica, che mette l’organismo in uno stato di allerta. Di per sé, non è necessariamente negativo, perché può essere funzionale al superamento di un compito o sfida percepita come complessa. La sua accezione negativa compare nel momento in cui le richieste esterne superano le proprie risorse ed esigenze, innescando delle reazioni avverse che possono assumere connotazioni patologiche [2]. Il burnout è una condizione di logoramento ed esaurimento delle risorse fisiche e psicologiche che deriva da una situazione lavorativa di stress cronico e persistente. Il burnout ha importanti ricadute sulla salute fisica e psicologica, che si rispecchiano anche sulla prestazione lavorativa, andando a peggiorare il senso di inefficienza e di disconnessione dal proprio lavoro che lo stesso burnout genera.
Se la distribuzione iniqua dei carichi familiari è alla base delle difficoltà nella conciliazione tra vita privata e lavorativa che impattano maggiormente sulle donne, la mancanza di un equilibrio di genere non è l’unico, né il principale, fattore determinante nel burnout. Assume un ruolo fondamentale anche il sentimento di inclusione sul posto di lavoro. Come emerge da un recente report di Boston Consulting Group [3] – secondo cui le persone con disabilità, lavoratori precari, donne e membri della comunità Lgbtqia+ soffrono fino al 26% in più di patologie legate al lavoro rispetto agli altri colleghi -, un maggiore senso di inclusione sul posto di lavoro è strettamente correlato a una minore incidenza del burnout.
Per far sentire le persone incluse, è importante che abbiano uguale accesso a risorse e possibilità di crescita professionale e che si trovino nella condizione di potersi confrontare serenamente con i propri superiori. Questo discorso, in particolare, assume un significato ancora maggiore per le persone doppiamente marginalizzate perché appartenenti a più di una minoranza. Il burnout è quindi correlato da un lato alla possibilità di crescita professionale, dall’altro, al supporto e alla sicurezza nel confronto con i propri superiori; ma, nonostante la leadership femminile sia statisticamente preferita sotto questi aspetti sia da uomini che da donne, rimane una percentuale nettamente inferiore più si sale nella scala gerarchica [4].
Se si guarda a tutti questi fattori nel loro insieme, non sembra strano che il burnout impatti molto più di frequente sulle donne, e a maggior ragione che il discorso valga per le donne appartenenti ad altre minoranze. Andrebbe infine preso in considerazione il fattore culturale, per cui ogni aspetto della vita delle donne viene considerato passibile del giudizio altrui. La pressione di questo tipo di retaggio culturale emerge anche nel mondo del lavoro, quando le donne in posizione di potere vengono costantemente esaminate e analizzate per quel che riguarda gli aspetti privati della loro vita, che siano il look, le relazioni personali, le scelte familiari. Ed essendo di fronte al paradosso per cui, quando una persona appartenente a una minoranza è sottoposta ad un giudizio viene anche posta nella condizione di rappresentare l’intera popolazione demografica a cui viene associata, non ci si può aspettare che ogni passo, in qualsiasi direzione, non sia motivo di stress, e, inevitabilmente, un passo verso il burnout.
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[1] La frase viene riportata dalla Dott.ssa Sara D’Attoma nell’episodio 56 del podcast Altri Orienti di Simone Pieranni.
[2] Cfr. Monica Ghelli, Stress lavoro correlato e genere, in “Igiene & Sicurezza del Lavoro” 8-9/2023, pp. V ss.
[3] BCG, Four Keys to Boosting Inclusion and Beating Burnout (2024).
[4] Si veda McKinsey, Women in workplace (2021).