La scrittura come amica
di Redazione CIG Arcigay Milano

di Ester, a cura del Gruppo Donna – CIG Arcigay Milano
Ho iniziato a scrivere perché mi piaceva leggere. Ho iniziato a leggere perché mamma ogni sabato portava me e mia sorella in biblioteca e papà, per farci addormentare, tutte le sere leggeva una favola nuova o un capitolo del Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, dando le intonazioni ai dialoghi dei personaggi e mettendo in scena un piccolo teatro vivente tra i guanciali del letto. Poi riuscivo a dormire bene.
La signora della biblioteca, invece, la signora Ada, ci permetteva di prendere in prestito non più di tre libri alla volta; se non mi bastavano, la mamma lasciava che prendessi in prestito i miei a suo nome. Ero sempre felice quando si trattava di scegliere quei tre o poco più in mezzo agli scaffali. Con la sicumera e la determinazione di chi entro i trent’anni avrebbe conquistato l’intera biblioteca. Che per me, a quel tempo, rappresentava l’unica biblioteca esistente in tutto il mondo.
Dopo qualche anno ho iniziato a sognare di diventare una scrittrice di romanzi. Volevo diventare una scrittrice e creare storie come quelle che leggevo, come Roald Dahl, Serge Brussolo, Jules Verne e Michael Ende.
Non si trattava soltanto di buttare giù su un foglio le lettere dell’alfabeto imparate a scuola e metterle in sequenza, ma di creare interi mondi, vite, persone. Quegli stessi mondi che non mi era concesso visitare, chiusa in un paesino di mille anime tra montagne, quelle stesse vite che non riuscivo a vivere, timida com’ero, introversa, e quelle stesse persone che non mi era dato incontrare.
A scuola all’intervallo nessuno mi chiedeva di scambiarsi le figurine dei Pokémon; in compenso, avrei dato vita attraverso le pagine di un racconto nuovo a un personaggio che mi sarebbe stato accanto nei momenti di solitudine. A cui potevo sussurrare i segreti più imbarazzanti, e dischiudere i miei sentimenti. Talvolta questo personaggio era un’eroina solitaria capace di attraversare le porte del tempo per caso scoperte in mezzo a un bosco, e dominare draghi, altre volte era me stessa, irraggiungibile, davanti a uno specchio che si specchiava, in un gioco di infinita introspezione, o ancora, era la ragazza che volevo amare e che non esisteva nel mondo “vero”.
A tredici anni, l’incontro fortuito con una coetanea non sarebbe stato così intenso se non le avessi fatto leggere quello che scrivevo, se non avessi scritto.
“Non pensavo tu fossi questa”, mi disse, dopo. Pensai che avrei potuto piacerle. Un incontro, un momento, poi subito il tempo è passato: e lei non è più tornata. La nostalgia di quel bagliore, invece, è rimasta. Con il tempo, il motivo per cui ho continuato a scrivere è cambiato, ma la radice pur evolvendosi è sempre stata: essere vista, mostrare chi fossi io veramente, meritare l’amore.

C’è una vicenda che io ho raccontato a poche persone, ma che è stata essenziale nel mio percorso di crescita e che è legata indissolubilmente alla passione per lo scrivere. Nell’età che i più definiscono “tempestosa”, l’adolescenza, mi sono innamorata di una donna molto, molto più grande di me, un’insegnante. Ora lo definirei quasi un cliché da lesbica, anche se non la vorrei minimizzare in questo modo. Il punto è che questa tempesta io l’ho vissuta quasi completamente tra le pagine di un diario, il mio, in cui ogni giorno andavo annotando ogni minimo cambiamento dell’animo, ogni mossa, ogni singola speranza o disillusione. Un diario che è andato crescendo fino a contare più di 150 pagine e che è la testimonianza viva, autentica, di un percorso di presa di consapevolezza. Prima di iniziarlo ero una quindicenne con tante emozioni, ingenua e aperta all’amore; quando l’ho terminato – dopo aver attraversato una ferocissima fase di omofobia interiorizzata, durata anni – ero riuscita finalmente a definirmi “lesbica”, anche se oramai disillusa.
Le primissime pagine raccontano di un sentimento che nasce, ma a cui non so dare un nome, perché scrivo di non avere “una definizione precisa per tale amore” e poi ancora che “non so più che cosa sono, ma so chi ho amato profondamente” e che “l’unica via” è “reprimere i miei sentimenti”. E mi fa profonda tenerezza rileggere di quando, con angoscia, mi chiedevo se fosse “una mia colpa essere innamorata di una donna, tanto da non riuscire a non scrivere di lei?” oppure, ancora, quando confesso di avere “paura e vergogna” di quello che provavo.
Sono parole che mi toccano, e che forse possono risuonare in tutta la loro verità in chi legge. Mi ricordano qualcosa che non posso e non voglio dimenticare: la fatica, la difficoltà, il dolore di sentire di avere un orientamento sessuale diverso da quello che viene considerato la “ normalità”. Dolore per tutte le parole d’amore scritte per lei, quasi invano, per l’esclusione a cui sono andata incontro per aver scelto l’onestà, e di quando – dopo averle confessato tutto – mi disse tagliente in un freddo corridoio pieno di persone: “Tu sei pazza”.
Le parole del diario mi ricordano che essere quella che sono, riuscire a dire, oggi, “sono lesbica” è il risultato di un percorso lungo e difficile, un risultato non scontato, una conquista; come se avessi combattuto una vera e propria guerra, che dall’esterno si è resa cruda all’interno, che sarebbe potuta andare diversamente. E mi commuove ancora di più se ripenso alla fragilità che avevo allora, a quanto fossi veramente sola. Ecco perché, tornata da scuola, non vedevo l’ora di mettermi a scrivere e ci passavo delle ore.
Le parole possono ferire, possono spingere a smettere di amare con l’ardore di un tempo, ma anche salvare, e questa ne è la prova.
Mi piace concludere questo tuffo nel passato condividendo una delle ultime pagine del diario, testimone di un orgoglio che non mi ha più abbandonata da allora:
“Penso che non mi sia capitata cosa più bella che scoprire il mio amore per le donne. Il modo in cui le amo e mi consumo per loro è meraviglioso: sì, è vero, a volte fa soffrire, ma non è mai quella sofferenza per cui ti chiedi – come molti crederebbero – “ma perché amo proprio lei?”, no, amare lei è meraviglioso, stare con lei è tutto quello che vorresti, la rispetti, sei paziente e comprensiva dei suoi tempi, insomma lei è tutto e tu per lei sei tutto, o meglio: tu sei lo slancio, il ponte da cui lei può prendere il volo, aprire le sue ali, e tutto, tutto grazie al tuo amore.
Mi mancava persino il coraggio di conoscermi, una volta. Ora tutto è passato. Caro diario, mi piacciono le donne e mi piacciono così tanto che per loro sacrificherei tutto quello che ho, anche la stima di mio padre se sarà necessario. “But I love her” dice Simone alla dirigente della scuola, poco prima di venire espulsa: chi l’ha portata via non è stata Annabelle, no, non è stato il loro amore ingiustamente disprezzato a portarla via, bensì l’ipocrisia di quelle persone, che hanno venduto l’anima al diavolo per avere la coscienza pulita*. E mi viene ancora più voglia di urlare “anch’io”: non mi tiro fuori, io ci sono dentro.
Non vi posso rinunciare: sento dentro di me ruggire uno spirito battagliero che dice “Ipocriti. Aprite gli occhi!”. No, non ho più alcun senso di colpa, nessun rimpianto.”
E dopo quindici anni è ancora così.