Rosalie, la forza della rivendicazione dei corpi non conformi

cinema Cultura Gruppo donna

di Redazione CIG Arcigay Milano

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Recensione del film Rosalie di Stéphanie Di Giusto, presentato nella sezione “Un Certain Regard” del Festival di Cannes 2023.

a cura di Chiara, Gruppo Donna – CIG Arcigay Milano

«Devi vivere la tua vita di donna»: è un imperativo di libertà, quello che un padre nella Francia cattolica e contadina del 1870 affida alla giovane Rosalie, costretta a nascondere con cura il suo irsutismo – uno squilibrio ormonale che la ricopre di peli sulla gran parte del corpo -, per essere data in sposa al veterano di guerra Abel, molto più interessato alla dote necessaria per salvare il suo caffè dal fallimento che al matrimonio.

Rosalie, dopo qualche legittima titubanza, decide di viverla – la propria vita -, ma alla sua maniera. A testa alta. La regista Stéphanie Di Giusto racconta una donna che non si lascia fermare dalle convenzioni e dal bigottismo della società in cui vive: Rosalie, presentato al Festival di Cannes del 2023 nella sezione “Un Certain Regard”, usa l’espediente del film in costume per raccontare in modo potente la contemporaneità. 

Rosalie (una intensa Nadia Tereszkiewicz) accetta la sua condizione nella speranza di essere amata, di poter rendere – attraverso il suo corpo – la società in grado di accogliere una vita non conforme.

Utilizzando una metafora che esplora il passato e una alterità visibile, il film offre uno spaccato degli esiti di uno stigma sociale che, scoperto, condannerebbe all’emarginazione. Quando il marito la rifiuta, la giovane scopre la forza della rivendicazione e della rappresentazione. Inizia infatti una battaglia per l’accettazione che passa in primo luogo dal mostrarsi, nella misura che il tempo le concede: la sua singolarità potrà servire a dare nuova vita al caffè, riempiendolo in un primo momento di curiosi e in seguito (almeno questo la ragazza si augura) di fedeli clienti che possano apprezzare la sua identità per ciò che è, quella di una donna generosa e intelligente.

Lo stereotipo freak della donna barbuta, diversa per antonomasia, scopre qui le sfaccettature di una donna pensante, colta, divertente che non si lascia etichettare. Cerca piuttosto di addomesticare lo sguardo altrui e di indurlo all’innamoramento, alla fascinazione per ciò che la distingue, come la barba.

Non solo: Rosalie si fa, anche, icona femminista. Supera i limiti imposti al femminile del suo tempo, provando a fare del suo corpo un manifesto di libertà e progresso, senza temere nemici. Il corpo di Rosalie diventa contundente, contro una morale che la etichetta subito come oscena, bollando la sua riappropriazione – per lei gesto di indipendenza – come volgare mercificazione. Da fenomeno da baraccone a donna di facili costumi, la condanna sociale diventa sempre più aspra e implacabile, capace di minare la sua ricerca di felicità.

Abel è intimorito da ciò che le convenzioni definiscono inaccettabile, eppure, nel suo mutismo, nei suoi sguardi glaciali, nel suo ruvido e silenzioso soffrire fisico avviene la più importante delle metamorfosi. L’uomo, che conosce la vergogna, lascia maturare in sé la voglia di regalare il diritto a un’esistenza a una donna che non chiede altro, a patto che non ci debbano più essere maschere e nascondigli.

In un film di immagini garbate e potenti come la protagonista e violente come l’ottusità del mondo che la giudica e osteggia, Nadia Tereszkiewicz riporta l’attenzione sul valore che la vicenda di Rosalie può avere ai giorni nostri, abituati a esporre la diversità a patto di poterla comprare 

Come i pionieri delle rivendicazioni LGBTQIA+, Rosalie accoglie la sua identità, e la sua barba, come parte di sé.

L’elemento di rottura in un film come Rosalie sta nella misura, nel non esasperare, ma nel creare situazioni che da piccole crescono fino a concentrare su se stesse emozioni convogliate e taciute, provate e non condivise: se la malizia sta negli occhi di chi guarda, in essi trova posto anche la saggezza dell’interpretazione.

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