Io, animale umano

Cultura Gruppo donna

di Redazione CIG Arcigay Milano

Perché la liberazione animale è una questione femminista

A cura del Gruppo Donna – CIG Arcigay Milano

di Giorgia

 

Quand’ero ragazzina, un pomeriggio davanti alla tv ha cambiato la mia vita. Stravaccata sul divano facevo zapping distratto dopo scuola, e all’improvviso i titoli iniziali di Babe, maialino coraggioso iniziarono a scorrermi davanti, così decisi di riguardare quello che pensavo fosse un semplice film per bambini. Sicuramente la me diciassettenne non poteva immaginare che quelle prime scene iniziali sarebbero state le radici delle mie più profonde convinzioni politiche.
Questa intro abbastanza nostalgica e un po’ intima mi serve per introdurre il tema del femminismo antispecista. La questione animale è stata un argomento fondamentale che ha trovato spazio nel discorso femminista a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, grazie ad attiviste ed ecofemministe come Carolyn Merchant, Françoise d’Eaubonne, Susan Griffin, Rachel Carson, Sherry Ortner. Ma il dibattito, oggi, è più vivo che mai.

Per rispondere a quella che, sono sicura, è la domanda sorta spontanea (ovvero: cosa c’entra il femminismo con la liberazione animale?) mi avvalgo di ciò di cui Carol J. Adams tratta nel suo libro Carne da macello: in sostanza, «lo sfruttamento degli animali è una manifestazione della brutale cultura patriarcale. Il trattamento degli animali come oggetti è parallelo e associato all’oggettivazione nella società patriarcale di donne, neri e altre minoranze sfruttate».  In pratica, c’è un filo rosso che lega indissolubilmente la misoginia della società contemporanea e il consumo della carne di stampo machista.

Posso anche portare sul tavolo la mia personale esperienza. Sono vegana da circa dieci anni. La mia è stata una scelta consapevole e mai sofferta. La mia scelta prima è stata “etica” e poi è diventata cifra politica, il nodo dentro al quale sono legati tutti i miei valori più importanti. Il mio personale atto di resistenza. Non posso dire che tutte le persone della mia vita hanno supportato la mia scelta, ma ho sempre trovato curiosità genuina, volontà di comprendere e informarsi, desiderio di confronto. Eppure, mi sono anche capitate accese discussioni (infruttuose, per i motivi che leggerete più avanti) con chi, a suon di link ad articoli online, video su YouTube di dubbia credibilità, cercava di imporre il proprio pensiero secondo cui “il cibo vegano è roba da femminucce” (cit.), o che astenersi dal consumare prodotti animali renda “deboli”, in senso performativo e non salutistico.

Vorrei però spostare il tema, a questo punto, per dire che il nodo centrale del discorso non è il veganismo, ma che nessuna persona sarà libera finché le gabbie saranno piene. 

Ma, come una lente d’ingrandimento che scende su un testo scritto piccolissimo e fittamente, le parole di un articolo di Laura Fernández (Animal Liberation is a Feminist Issue, tradotto da Feminoska) si stagliano nette e imprescindibili: «Chiamiamo “cagne” le donne che sperimentano la loro sessualità liberamente e senza tabù, o quelle che sfidano la monogamia, “vipere” quelle che si comportano male, “vacche” le donne grasse o quelle che ingrassano – per controllare il loro corpo e mantenere l’imperativo della magrezza. Quando vogliamo dire che qualcunə è codardə, lə chiamiamo “coniglio”, se lə consideriamo sporcə, lə chiamiamo “maiale”. Per una persona spregevole, usiamo “topo di fogna”».
Il collegamento tra sessismo, eteronormatività e specismo non è solo dovuto al fatto che tutti e tre sono sistemi di oppressione, ma anche perché condividono radici e logiche comuni. Uno degli argomenti fondamentali della lotta femminista è il diritto di autodeterminarsi, soprattutto di autodeterminare il proprio corpo.

Le industrie della carne e dei derivati animali prosperano sullo sfruttamento degli animali non umani per profitto economico, e in nome di quest’ultimo viene negato loro il diritto al proprio corpo che viene, invece, sottratto alla loro coscienza con la forza. Le femmine vengono costrette a riprodursi negli allevamenti, l’inseminazione artificiale dei bovini è una pratica adoperata in maniera sistematica, e – specialmente – nel settore lattiero-caseario vengono separate dai cuccioli quasi immediatamente.
A questo proposito mi vengono in mente proprio quelle fatidiche scene iniziali in Babe, maialino coraggioso, in cui Babe viene sottratto alla madre, insieme a tutti gli altri fratellini.

Noi e gli individui non umani abbiamo un triste e comune destino: attraverso l’oggettificazione i corpi vengono letteralmente e figurativamente ridotti a carne. Spesso siamo solo una parte di noi stessə: un seno, una coscia, un paio di labbra, un piede. Veniamo “macellatə” anche noi, e consumate. Siamo prede di una caccia che non si ferma mai, che continua a martoriarci, esattamente come succede ai nostri compagni rinchiusi in gabbie diverse dalle nostre, ma non meno fatali. L’oppressore è solo uno: la mascolinità di stampo patriarcale per cui è necessario e fondamentale mangiare carne, “per non essere una femminuccia”, e possedere donne, per dimostrare il proprio valore. 

Quello che sto cercando di dire è semplicemente questo: le nostre lotte appartengono anche agli animali non umani, i loro corpi mercificati sono i nostri corpi oggettificati. Sfidare il sistema capitalista e la norma sociale dello specismo rifiutandosi di mangiare altre specie animali, per l’antispecismo femminista, è parte di una prospettiva rivoluzionaria.

Se volete approfondire la tematica, vi suggerisco la lettura di questi testi:

  • Carol J. Adams, Carne da macello. La politica sessuale della carne
  • Sarat Colling, Animali in Rivolta, Confini, Resistenza e Solidarietà umana
  • Laura Fernández, Animal Liberation is a Feminist Issue
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