Il corpo delle donne per praticare la soglia. “Dare la vita”, di Michela Murgia

Cultura Gruppo donna

di Redazione CIG Arcigay Milano

Una recensione a cura del Gruppo Donna del CIG.

di Chiara Palumbo

Sposa di qualcuno, madre di chiunque. Io non sapevo cosa fosse la vocazione a essere me”. Michela Murgia scriveva queste parole prima di diventare la scrittrice che abbiamo imparato ad amare (ma di cui più di qualcuno ha fatto un bersaglio). Al termine della sua vita, nell’ultimo libro Dare la vita, edito da Rizzoli e scritto – letteralmente – con le ultime forze, fino all’ultima manciata di ore, si risponde “la vocazione a essere me consiste proprio nel domandarmi, con tutti i privilegi condivisi di cui ho il privilegio di disporre, chi sia una madre e mai di chi sia, nel non rassegnarmi all’idea di famiglia a cui mi avrebbero destinata la mera biologia e le leggi dello Stato”.

A guardare indietro, tutta la vita pubblica di Murgia scrittrice (da scrivere rigorosamente senza articolo: come amava ripetere, con una battuta, “la Murgia” è “un altopiano delle Puglie”) è una risposta a questa domanda. Di figli d’anima (lo è stata a sua volta) ha parlato fin dal primo romanzo, Accabadora, forzando i confini dei legami e della generatività. Le bastava, del resto, fare ricorso alla lingua della sua Sardegna in cui i “fillus de anima sono stati consuetudine fino alle soglie del Duemila: figli scelti, di cui una famiglia libera del legame biologico si prende cura, offrendo possibilità che altrimenti non avrebbero. E dove il termine “su sposu”, “sa sposa” non hanno nulla a che vedere con il significato che sembrerebbero evocare in italiano, e poco con quello già più vicino di fidanzato, che evoca una promessa e un reciproco impegno. Il termine si può, invece, usare trasversalmente, con legami affettivi di tipo diverso, a prescindere dall’età, dai reciproci ruoli. Anche in questo caso, ha a che fare con la scelta, con il superamento del linguaggio come ci siamo abituati a usarle. Arrivare a scegliere la parola “queer”, con queste premesse, è a suo modo naturale. Per Murgia “la queerness è una pratica della soglia. Accoglie il cambiamento come strutturale”.

Queer universale e Queer family

Premesso questo, non è importante discutere su quanto la sua declinazione di queer corrisponda al significato condiviso all’interno della comunità. È importante, piuttosto, dare la dimostrazione plastica del modo in cui, prima e dopo il 10 agosto 2023, il termine sia entrato in contesti dove prima era alieno, non per essere denigrato, ma approfondito e indagato. Come vale per l’opinione di ciascuno, l’opinione di Murgia non esaurisce un dibattito ma lo amplia, lancia una suggestione che chiede di essere raccolta. Così come fanno le poco più di cento pagine di Dare la vita, che proprio per questo è un saggio importante.

È evidente, leggendolo, che questa manciata di pagine densissime sono l’esito forzato di una situazione estrema, di uno sforzo anche fisico enorme, e della volontà politica di spendere in questo modo, toccando i temi che sentiva più importanti l’ultimo tempo che le era dato di vivere. Dare la vita è il pamphlet militante di una donna che aveva scelto l’intervento attraverso la scrittura, piuttosto che il romanzo, perché credeva che prendere parola sul presente fosse il vero compito di chi con le parole ci vive, di quelli che – se non esistessero più – si chiamerebbero ancora intellettuali. È un saggio che avrebbe potuto (e dovuto, forse) contare diverse centinaia di pagine, a ben guardare già disseminate – con la lucidità luminosa e la penna affilata ed elegante che le erano proprie – in tutta la sua produzione precedente: tra le altre in Chirù, God save the queer e L’inferno è una buona memoria, ma anche in Ave Mary.

In queste pagine, però, piene di tutta l’urgenza della situazione, Murgia mette in ordine tutto il pensiero che ha percorso carsicamente il suo lavoro, e mette su carta l’esito delle sue riflessioni. A partire dal concetto di queer, appunto, con la sua dirompenza, e l’assenza strutturale di una definizione. A partire dalla Q dell’acronimo LGBTQIA, infatti, che significa anche “questioning”, spiega: “si conferma che una domanda vale più di cento risposte, e il suo potere è quello di non esaurire mai gli interrogativi”. Premesso questo, a Murgia va dato anche il merito di precisare che sganciare la Q dal significato che vi attribuisce chi la vive all’interno della comunità non significa depotenziarla o farne un attributo di folklore. Non è un termine banalizzabile. “Il problema di fondo è la normalità in sé, e nulla si definisce in termini binari: se non nascono da una esplicita progettualità anti normativa, se non si fondano su una visione non binaria delle relazioni non sono queer i rapporti, né i legami”, spiega.

Nell’“instabilità cruciale della Q” si legge anche il rifiuto di Murgia di definirsi, pur dichiarando di aver intessuto relazioni sia con uomini che con donne. Riconosce infatti l’esigenza di chi le ha chiesto di passare attraverso un coming out, per guadagnare il diritto a occupare uno spazio di parola; ma dà al rifiuto di qualsiasi definizione, che non passi attraverso una “non definizione”, un valore politico: “non significa vivere in negazione. Significa accettare che l’indeterminatezza, quando è programmatica e vissuta in riflessiva condivisione, sia una condizione di libertà”, una bandiera, che assomma le altre, un metodo possibile per trovare uno spazio altro all’interno del binarismo dello Stato e delle leggi.

Una posizione sulla quale vale senz’altro la pena proseguire il dibattito, che può lasciare forse l’amaro in bocca a chi ha fatto della definizione di sé una componente essenziale della propria militanza, ma d’altro canto apre nuovi spazi per chi, oggi come ieri, per molti legittimi motivi si sente stretto dentro una definizione. 

In un testo, in cui Murgia usa – come già negli ultimi libri – lo schwa, e che ha esorbitato i confini del progetto iniziale proprio nell’agosto scorso, però, Murgia ha sentito il bisogno di approfondire, a partire da questa idea di queer, anche l’idea di famiglia. La sua, composta di figli d’anima sul modello di quello che lei era stata, è qualcosa di già noto a parte della comunità, soprattutto in chi ha sperimentato il rifiuto, ma ancora in gran parte lontano dall’opinione comune. Una famiglia basata sul desiderio di prendersi cura, perché “quando il gioco della vita si fa duro vince soltanto chi resta e fa quello che serve”. In questa logica, però, ad essere rifiutati non sono soltanto i legami di sangue, o le maglie strette dei vincoli giuridici (chi non si ricorda gli esiti a volte grotteschi delle norme sui congiunti nel periodo del Covid), ma anche alcuni degli assunti su cui si reggono. La fedeltà, ad esempio, o la reciproca promessa di vita: promettersi amore eterno significa – dice Murgia – prendersi l’impegno irrealistico di non cambiare, e la fedeltà non è che “l’arma con cui il binarismo patriarcale controlla la vita delle persone, specie di quelle che chiama donne”.

Anche qui, va da sé, non vale tutto. Alla fedeltà si sostituisce la logica dell’affidabilità, della problematizzazione costruttiva. Murgia non le menziona mai apertamente, ma sono le logiche su cui regge – in gran parte – la riflessione sulle relazioni poliamorose. Niente di nuovo per una parte (quanto consistente?) della comunità, ma un ragionamento ancora dirompente in un momento storico come questo.

Tutto torna al corpo delle donne

Il corpo delle donne è però il vero protagonista di questo pamphlet, alla sua origine pensato come un saggio sulla gestazione per altri. Un tema su cui Murgia ha riflettuto a lungo, elaborando un pensiero che non rifugge la complessità del discorso, ma analizza l’aspetto economico, e la componente di classe, così come la libertà della donna a cambiare idea fino all’ultimo momento. A prescindere dal sottoscrivere o meno l’opinione di Murgia nella sua interezza, l’aspetto fondamentale e (purtroppo) realmente innovativo del suo discorso, è riportarlo non alla mistica del materno e alle sue radici etiche ma, invece, al corpo delle donne: la GPA (acute anche le riflessioni sull’uso del termine “surrogacye sue declinazioni) è – dice Murgia, con una sintesi illuminante – qualcosa di più accostabile all’aborto, nelle sue declinazioni di legge: se deve essere garantito il primo (e ci si augura che non se ne dubiti) per quale motivo non la seconda? Se si disciplina il diritto a interrompere una gravidanza, per quale motivo non si dovrebbe farlo con chi di fatto non fa altro che scegliere di non interromperla, e di portare a compimento la gestazione di un nascituro altrettanto (in linea generale) non voluto da chi ha scelto di portarlo in grembo per altri? Anche perché sarebbe lo stesso l’esito: la proibizione non eliminerebbe il fenomeno, farebbe solo in modo che si verifichi con meno tutele, economiche e giuridico sanitarie.

Da qui, la riflessione di Murgia sulle transazioni economiche, a garanzia delle assicurazioni, del tempo investito e delle modificazioni del corpo per le donne più fragili. Se la legge sull’aborto ha protetto le donne dalle mammane, l’unico modo maturo di accostarsi alla riflessione sulla GPA passa dalla regolamentazione, dell’uso di un corpo su cui le donne non possono però avere una libertà incompleta. Se la legge mi tutela, “il corpo è mio e lo gestisco io” in tutti i suoi aspetti. Personali, ed anche economici. Del resto, vale la stessa battuta con cui ormai da decenni si cerca di spiegare il concetto dell’allargamento dei diritti a chi vi è avverso: proteggere un diritto non equivale ad avvalersene. Sarebbe così semplice!

Al di là degli esiti a cui giunge, la presa di posizione di Murgia è – e di questo le va dato merito – quella di chi restituisce alle donne il diritto di parola (esclusivo) su ciò che le riguarda, direttamente e individualmente. Una facoltà di cui certo femminismo (anche lesbico, lo sappiamo bene) ha privato le donne singole, sentendosi autorizzato a parlare per tutte.

A partire dal concetto di maternità, e dalla sua esperienza di madre non passata attraverso la biologia, e quindi sapendo attraverso il proprio corpo in quante maniere si può dare la vita, Murgia puntella poi le polemiche politiche sul materno e sul ruolo della donna nella società con una sintesi lapidaria. “Le donne italiane ricominceranno a dare la vita quando per farla venire al mondo e crescerla non sarà più necessario amputare la propria”: perché spesso, le parole “donna” e “madre” non sono che un pretesto retorico grottesco e patriarcale per negare la loro libertà. Straordinario, in questo senso – e vicino alle sue pagine puramente letterarie migliori – il racconto che chiude il libro, datato prima di Accabadora: una genealogia femminile che riscrive la storia della sua Sardegna – ma a ben guardare dell’umanità –, attraverso gli occhi di una donna libera, della libertà che Murgia ha riconquistato a se stessa.

Questo libro è molte cose, dunque, tutte da scoprire, il lascito prezioso di un’intellettuale di cui sentiamo la mancanza. Che pretende però da chi resta di essere discusso e di diventare ulteriore argomento di dibattito, con la stessa libertà senza filtri di cui fino all’ultimo Murgia ha fatto la propria cifra. Senza paura, senza più tacere su nulla o aspettare di prendere parola. Sta a noi continuare il cammino: “la mia anima non ha mai desiderato generare né gente né libri mansueti, compiacenti, accondiscendenti. Fate casino”.

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