Non temo (solo) l’abilismo in sè, ma l’abilismo in me
di Redazione CIG Arcigay Milano
La discriminazione verso le persone disabili è un problema sistemico e rimosso. Non solo nella società, troppo spesso non accessibile, ma anche nella coscienza delle persone. Anche di chi ne è coinvolto.
di Chiara, a cura del Gruppo Donna – CIG Arcigay Milano
“Chiara, tu dovrai sempre fare tre passi quando agli altri ne basta uno”. Mi ha detto la prima persona di cui mi sono innamorata. Non ero già più adolescente, credevo di aver già imparato, di me, quello che dovevo sapere. Abbastanza da poter ascoltare più gli altri che me stessa. Invece, quella frase mi ha risuonato dentro con una potenza imprevista. E, prima di tutto, ha liberato l’eco della rabbia: come ti permetti di misurare per me la fatica che dovrò fare, di decidere che sarò diversa, decretare che sarò, che sono, di meno? Li avevo già smentiti prima di averne coscienza, quelli che quando sono nata dicevano che non avrei mai camminato. Avevo già riso di chi aveva paura di chiedere che cosa mi fosse successo alla gamba, per non offendermi. La mettevo davanti io, con un sorriso, la mia storia. In fondo, non è niente di che.
Non è una cosa di cui vergognarmi, non è qualcosa che mi rende speciale. Neanche tra quelli che il mondo e la sua compassione pelosa chiamano così.
Non sono Pierangelo Bertoli, che nel 1991 dovette salire sul palcoscenico di Sanremo con le gambe sotto una coperta e per carità, solo dopo mezzanotte, perché non sia mai che lo stomaco delicato dell’Italia veda una sedia a rotelle in prima serata. Non sono Bebe Vio e il suo talento, la sua storia di coraggio data in pasto alle prime pagine, che ha trasformato una ragazza di vent’anni in un simbolo, sacrificato spesso, come tant*, all’inspiration porn, per anni senza un attimo per essere soltanto una giovane donna. Ma non sono neanche il mio amico Roberto, che anche trent’anni dopo si sente ancora 16 anni, come quando si è trovato in carrozzina, e da lì ha imparato a guardare il mondo. Ad andare comunque in montagna e allo stadio, da solo. E anche a non andare più al mare. Perché spazi attrezzati ce ne sono pochissimi. Che diritto avrei avuto io e il mio passo sghembo a pensarmi come loro? Ma anche il contrario, che non dicevo nemmeno a me stessa. Che diritto aveva il mondo di leggermi come loro?
Certo, non ho mai potuto coltivare il sogno di una medaglia olimpica. Sapevo di fare più fatica degli altri durante l’ora di ginnastica per ottenere la metà. E ho dovuto accettare in fretta che nessuno mi avrebbe scelto di sua sponte per le partite in cortile. Non ero la prima, non sarei stata l’ultima. Sarebbe stato un altro il mio spazio per essere brava. Così avevo incontrato quel primo amore. Per avere qualcuno che – finalmente – mi dicesse che sapevo fare più degli altri. E poi era arrivata quella frase. Un dato neutro, nella bocca di chi l’ha formulata. Per me, una rivoluzione. Il momento in cui ho visto, dentro di me, il rifiuto e la vendetta: non è vero. E se lo fosse, ne farò sei, nove, e il mondo dovrà riconoscermi il merito di averlo fatto. E fare, fare sempre di più. Aggirare, io che potevo, tutti gli ostacoli di una società che non è pensata per chi fisicamente non può. Lavorare, per anni, e dire a ogni datore di lavoro “tranquillo, posso fare tutto”, perché né lui né io, pensassimo mai che non era vero. Fino a che qualcuno mi ha detto che forse, quei due passi in più valevano la richiesta alla società e allo Stato di un aiuto per farli. Di anni, nel frattempo, ne avevo compiuti trenta. Passati tutti a non voler vedere. A non sentirmi mai nel luogo giusto. Disabile tra i sani, sana tra i disabili. E allora, cosa sono?
C’è voluto il femminismo intersezionale, per chiamare tutto questo con il nome che scrivo, oggi, per la prima volta. Abilismo interiorizzato. C’è voluta la scoperta di una nuova parte della mia identità, e dell’attivismo, per trovare un senso di appartenenza che consentisse di misurare a posteriori la paura, l’isolamento che la società abilista ti (può) fare considerare inevitabile. E anche per riconoscere – come la comunità LGBTQ+ sa insegnare meglio di tutti – che ogni storia vale. Che ogni vita, singola, conta, e traccia il suo percorso. Che non serve una patente per aver diritto di dire “io sono”, a patto di essere consapevole che puoi parlare per te, non per tutt*. Che il tuo sguardo, personale. può anche diventare collettivo. Serve, però, come coi femminismi, aver studiato e compreso.
Anche se stessa. Le barriere che ci mette il mondo e quelle che ci mettiamo da sol*. O meglio, tanto risalenti nel tempo da essere parti di noi, di me. Più difficili da vedere e da spostare.
Perché sì, abilista è la società che si struttura in modo tale da escludere e discriminare una parte dei suoi cittadini, e che quei passi in più li costringe a farli lasciandoli sotto una scala o fuori dal mondo del lavoro. Ma abilista è anche quel pensiero che la società stessa ha educato a marcare una differenza, una gerarchia, tra sé e gli altri. A stabilire, senza le parole per dirselo, di essere altro, di essere meglio.
O – al contrario – di non essere abbastanza. Presentarsi davanti a una commissione convinta di uscirne con una certificazione di “normalità” statistica che a quel punto varrebbe una condanna a dover fare tutto da sola, ancora. E uscirne con un numero che cambia la vita.
Non tanto e non solo per quello che lo Stato garantisce (un esempio per tutti: per avere diritto a un sussidio con cui, oggi, si fanno forse un paio di spese, occorre avere un reddito, all’anno, più basso di quello che costa un aperitivo al giorno in via Lecco). La vita cambia perché offre nuovi occhi. Con cui improvvisamente scopri gli occhi che ti guardano.
Che i tuoi gesti di tutti i giorni non sono gli stessi degli altri. Che il tuo modo di vivere, la società lo chiama meccanismo compensativo. Che non ti vesti allo stesso modo, non ti siedi allo stesso modo. Non pensi allo stesso modo. E che non basta dirlo, che va bene così. Il punto è darsi il permesso di crederlo.
Così un giorno ti guardi indietro e le vedi, le orme dei tre passi in più. E sei grata a chi te lo ha detto. Perchè aver capito che dovevi farli ti ha dato gli strumenti per capire come. E pensi che sei fortunata. Perché adesso, al lavoro, sanno dove ti devi fermare. E ti ringraziano, perchè sanno come fare in modo che tutto funzioni meglio. La mia ex collega con l’endometriosi però ci aveva messo anni di battute e frasi minimizzanti per avere la stessa fortuna. Il mio collega con l’ADHD, invece, ancora preferisce non dirlo proprio. Perché una caduta si spiega. Una neurodivergenza o una disabilità invisibile, a quanti passi in più corrispondono?
L’intersezionalità e la dimensione collettiva non danno una risposta sul numero dei passi di differenza. O delle barriere, visibili e invisibili, che ci sono ancora davanti. Ma offrono, o quantomeno hanno offerto a me, mani, occhi con cui condividerli. Orecchie a cui non dover più chiedere scusa o dimostrare. E pensieri per consentirsi di essere, semplicemente, chi si è.